LA FINESTRA GLOBALE

 

 

 

C’era una volta una vecchia ragazza che aveva una strana anomalia. Il suo sviluppo era stato normale, due gambe adeguate al tronco robusto, due braccia lunghe e armoniose, due seni pieni e sodi ed un fondo schiena rotondeggiante. Ma il suo cuore era rimasto molto piccolo, un cuore bambino. A nulla erano valsi i suggerimenti e le cure, il cuore non ne voleva sapere di crescere e si comportava proprio da bambino: saltellava, faceva le capriole, si stupiva per un nonnulla, accoglieva tutto e tutti con gioia, e sognava. I sogni erano la cosa più deleteria perché, secondo i "saggi", con i sogni prima o poi bisogna fare i conti. Ma il Cuore Bambino non ascoltava nessuno: cadeva, si feriva, si scorticava, ma, una sutura qua un cerotto là, continuava a saltellare. Un giorno fece un capitombolo più rovinoso degli altri e tutti lì pronti a sgridarlo: "Ti avevamo avvertito che prima o poi ti sarebbe successo, ma tu, testardo, non ascolti nessuno. E' possibile che ancora non ti renda conto che non è più tempo per i giochi pericolosi?"

 

Il Cuore Bambino capì che era giunto il momento di smetterla, di chiudere quella fase che aveva prolungato sin troppo a lungo e che era inadeguata al tempo che si era accumulato su di lui. E cercò di finirla veramente con i giochi pericolosi, ce la mise tutta, anche se a volte, troppo spesso, si ritrovava malinconico per la perdita del suo capitale di sogni. Il suo conto era in rosso e non c'era nulla da fare per ricapitalizzare il tutto. Bisognava rassegnarsi, chiudere la partita e dare retta alla sorella Ragione che gli suggeriva saggiamente di non rischiare più con gli investimenti azzardati destinati a portarlo al fallimento. Il Cuore Bambino riconobbe che la sorella era nel giusto e che dunque doveva arrendersi. Il risultato fu che divenne sempre più triste, non gli interessava più nulla, non riusciva più a cogliere la poesia che prima era capace di vedere in tutto ciò che lo circondava; era biologicamente vivo, ma chiuso in un sepolcro.

 

Il tempo passava e più passava più il Cuore Bambino sentiva nostalgia delle sue capriole strampalate, delle sue corse fatiganti, dei suoi pericolosi saltelli e di tutte le monellerie. Perché lo avevano costretto all'immobilità? Si riposava, è vero, non subiva sussulti, aritmie, crisi tachicardiche, si era rassegnato ad invecchiare in maniera sana ed igienica, ma era sempre più triste e solo e se qualche volta si lasciava andare ad un giochino facile facile,  uno di quei giochini asettici, e perciò noiosi, che non turbano il sistema nervoso e non procurano ansie, non provava nessun piacere, anzi rimpiangeva ancora di più le sue vecchie e amate pazzie.

 

Un giorno gli capitò di affacciarsi ad una strana finestra, una finestra dalla quale si vedevano tutte le cose del mondo. Seppe che la chiamavano la finestra globale e, spinto dalla curiosità, vi restò inchiodato a lungo. Vide passare davvero  molte cose, alcune belle altre meno. Una di queste volte, mentre scrutava attentamente l'orizzonte, gli capitò di intravedere un altro cuore che gli parve potesse somigliargli. Si sentì rimescolare tutto. Pensò allora di non essere il solo ad amare le capriole ed i saltelli. Perché non indagare? Si disse. In fondo lui conservava ancora il gusto per le cose da scoprire.

 

Fece di tutto per sintonizzarsi con il compagno sconosciuto e, una parola oggi, un silenzio domani, cominciò a sentire urgente il bisogno di risvegliarsi da quel lungo torpore e di ritornare ai suoi giochi pericolosi. Cominciò ad avvertire forti scariche di adrenalina che lo spingevano ad avventurarsi sempre oltre.

 

La sorella Ragione si preoccupò assai. "Ma cosa credi di ottenere- gli disse- quello è un cuore che ha altri compagni che lo aspettano e non potrà fermarsi a lungo a giocare con te. Vuoi procurarti altri guai? Altre cadute,altre abrasioni? Devi capire una volta per tutte che è tardi per fare ancora lo zuzzurellone."

 

Ma il Cuore Bambino resisteva agli attacchi. Sì, forse era davvero tardi. Ma se non fosse stato "troppo" tardi? Se avesse potuto ancora una volta sorridere, cantare, saltellare, inseguire una formichina e piangere per un uccellino ferito?

 

Il conflitto era aperto:fratello e sorella erano in guerra, lei attaccava, lui resisteva.

 

"Vuoi per forza farti del male? Lo sai come va a finire…insonnia, ansia, tensione, lacrime, psicanalista…"

 

E lui: "Ma io non posso vivere senza un sogno, senza un'emozione, senza la certezza di esistere anche per gli altri."

 

Io li ho lasciati lì a dibattere. E la conclusione della storia ancora non la conosco.

 

 

 

 

 

 

 

           

 

IL PROFUMO DEL MANDORLO

 

 

 

Le luci del solitario viale si riflettevano sull’asfalto bagnato rendendolo simile a un luminoso tappeto semovente, una specie di tapis roulant dove sembrava che l’auto scivolasse senza dover giungere a una meta. Il buio rendeva minacciosa la campagna che di giorno era allegra pur nel suo giallo invernale. Al di là della strada si estendeva la Valle, disseminata di antiche vestigia, indifferente e sprezzante allo sfregio delle costruzioni selvagge che l’attorniavano. Una matrona orgogliosa, compiaciuta di lasciarsi ammirare e disposta a fare dono delle sue grazie.

La sua mente divagava. Appigliandosi a ciò che la circondava si allontanava dall’evento contingente. Ripensò ad un momento vissuto e incuneato nel passato e ricreò dentro di sé lo stato d’animo che l’aveva accompagnato. E quello la rinviò ad un altro momento e ancora rivisse la sensazione ad esso connessa, in una catena di rimandi che a seguirli l’avrebbero condotta molto lontana dal presente.

Le sembrò che la memoria fosse il piccolo cilindro di un prestigiatore dal quale veniva fuori un fazzoletto colorato che a tirarlo si portava appresso un’infinità di altri fazzoletti di colore diverso, in una lunga teoria che non si sarebbe esaurita mai se lui, il demiurgo onnipotente, non avesse cessato l’estrazione.

Nell’oscurità dell’auto, dove lei persisteva in un silenzio che avrebbe dovuto apparire il frutto della sua aderenza a ciò che stava vivendo e che si rivelava invece il risultato dell’imbarazzo e dell’indecisione che aveva cercato di mascherare, la mano di lui si mosse per raggiungere il suo collo che carezzò delicatamente risalendo verso la gota e allungandosi fino all’orecchio.

“Mi sembra di essere tornato ai tempi della scuola –disse- quando cercavo gli angoli bui per appartarmi con la mia ragazza.”

Lei sorrise. “Mi sembra bello –affermò- ritrovare sensazioni così lontane nel tempo.”

“Avrei voluto portarti a casa mia, se avessimo avuto più tempo.”

Rimase un attimo in silenzio. Poi continuò: “Quando sarà passata questa buriana di feste verrò a trovarti. Potremo passare un paio di giorni assieme, se sei d’accordo.”

“Si può fare.” La risposta non recava particolari note di entusiasmo, ma lei sperò che fosse almeno credibile.

Non voleva caricare quell’incontro di significati speciali e questo la faceva apparire fredda, forse perfino ostile. Le dispiaceva, non avrebbe voluto che lui la credesse indifferente e apatica, ma si era imposta di non indulgere a facili sentimentalismi. Si era dettata un decalogo che le proibiva gli eccessivi cedimenti, le esaltazioni, le galoppate della fantasia. Il prezzo era questo distacco, il diaframma che doveva opporre fra ciò che sentiva e ciò che viveva. Perciò non aveva posto a lui nessuna domanda e non aveva ceduto a raccontare di sé.

La mano di lui, che percorreva la superficie del suo corpo disponibile al tatto, le procurava una sorta di disagio che, partendo da un piccolissimo punto situato nel complesso sistema della sua concezione di certe situazioni, s’irradiava e percorreva tutto il diagramma della sua esistenza vissuta. Era l’impossibilità di liberarsi del pensiero, flusso incontenibile che contaminava ogni sua azione, ogni suo gesto, ogni moto spontaneo dell’anima.

Eppure lui le piaceva. La sua disposizione a rendere leggera l’atmosfera fra loro, il tocco delicato ed insinuante delle sue mani, lo sguardo color oliva dei suoi occhi perduto dietro le lenti, il suo discorrere puntando dritto all’argomento privilegiato, le piacevano. Il suo era un comportamento onesto, non prometteva niente di più di quanto non gli fosse possibile dare. Ma l’allegria un po’ forzata e qualche riferimento apparentemente casuale facevano sospettare un retroscena serio, tradivano una pensosità che certo derivava da situazioni personali più intricate di quanto non volesse far trasparire.

Lei non voleva sapere, la vita di lui non doveva riguardarla, non era disposta a lasciarsi irretire da problemi e complicazioni che non erano suoi.

Giunti al limite della periferia, lui fermò l’auto e protese il busto verso di lei, allargando le braccia per accoglierla.

Sarebbe stato facile abbandonarsi, chiudere i contatti con la sua realtà interiore e lasciare che tutto si compisse, se un perverso occhio invisibile non l’avesse resa estranea alla situazione suscitandole un senso di non appartenenza verso quell’abbraccio intriso di tenerezza. E tuttavia il benessere che scaturiva da quelle braccia che l’avvolgevano era il segnale che tutto poteva essere riconvertito se solo lei si fosse lasciata andare e avesse dimenticato. Ma quell’occhio la poneva su un’impalcatura dalla quale osservava se stessa come una presenza altra della quale valutava i gesti e gli abbandoni con vigile attenzione. Di quest’altra se stessa non le appartenevano il capo reclinato sul petto di lui, né le mani che si protendevano verso l’altro, né infine quel fremito convulso al centro del corpo che chiedeva di essere placato. Sue erano invece le lacrime non piante e la dolorosa memoria di altri momenti vissuti con cuore incantato.

Eppure qualcosa in lei, non volendo, rispondeva. Una volontà autonoma che, separandosi dalla sua matrice, agiva da sé. Un ramo che, staccatosi dall’albero-madre, anziché morire attecchiva e rinvigoriva, quasi che proprio il trauma del distacco lo avesse reso vitale.

Le parole di lui accompagnavano ogni gesto e ogni carezza trasmettendo una dolce sensualità. Ma erano come frecce che colpivano il bersaglio senza conficcarvisi per lo spessore marmoreo della superficie. E così tutto galleggiava in una dimensione equorea ed era quasi una irrealtà onirica quell’agitarsi e quel provare a trarre il massimo del piacere da quel cercarsi.

All’improvviso le mani di lei respinsero quel corpo che la sovrastava. E gli occhi di lui ebbero un lampo di sincera delusione. Il gesto gli apparve crudelmente insensato, il capriccio di una bambina che ha promesso di partecipare a un gioco e senza spiegarne il motivo se ne ritira togliendo al compagno il piacere pregustato.

Un sorriso imbronciato accompagnò il ritrarsi di lui.

Ritornarono indietro in silenzio.

La sera invernale oscurava la Valle dove presto avrebbero cominciato a fiorire i mandorli. Ricordò quando, bambina, allungava le braccia per rubare qualche fiore. Erano così delicati che il più lieve tocco bastava a farne dissolvere i petali. Le sembrò di avvertirne ancora fra le dita l’impalpabile consistenza e perfino di sentirne il profumo.

Il profumo amaro e disfatto di ciò che si perde.